Ovidio Metamorphosis

by R$kp - Antonella Eye Porcelluzzi

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about

"Une collaboration mêlant une adaptation de 5 extraits des Métamorphoses d'Ovide interprétée par Antonella Eye Porcelluzzi et les musiques indus mélodiques de R$kp." (R$kp)

"Dans mon choix je me suis tenue à une introduction
-car le texte d'Ovide est disponible à tous-, introduction à l'oeuvre, à la lecture de l'original,
introduction costaude : une partie du prologue, quelques invective, Ulysse,
et le discours d’inspiration pythagoricienne à la fin, qui ressemble au discours des vegans d'aujourd’hui.
Je n’ai pas renvoyé à des references précises, l’intention est d’en faire un nouvel ouvrage poétique et musical, n'est-ce pas :) " (AEP)

credits

released February 20, 2023

Ovidio- Le Metamorfosi : texte
Musique/Mix/Artwork : R$kp
Adaptation des textes et Voix : Antonella Eye Porcelluzzi


Texte:

LIBRO PRIMO
A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi
mi spinge l'estro. O dei, se vostre sono queste metamorfosi,
ispirate il mio disegno, così che il canto dalle origini
del mondo si snodi ininterrotto sino ai miei giorni.
Prima del mare, della terra e del cielo, che tutto copre,
unico era il volto della natura in tutto l'universo,
quello che è detto Caos, mole informe e confusa,
non più che materia inerte, una congerie di germi
differenti di cose mal combinate fra loro.
Non c'era Titano che donasse al mondo la luce,
né Febe che nuova crescendo unisse le sue corna;
in mezzo all'aria, retta dalla gravità,
non si librava la terra, né lungo i margini
dei continenti stendeva Anfitrite le sue braccia.
E per quanto lì ci fossero terra, mare ed aria,
malferma era la prima, non navigabile l'onda,
l'aria priva di luce: niente aveva forma stabile,
ogni cosa s'opponeva all'altra, perché in un corpo solo
il freddo lottava col caldo, l'umido col secco,
il molle col duro, il peso con l'assenza di peso.
Un dio, col favore di natura, sanò questi contrasti:
dal cielo separò la terra, dalla terra il mare


xx
«Mai più in ansia fui per il dominio del mondo,
neppure quando il mostro dai piedi di serpe s'apprestava
a scagliare le sue cento braccia per conquistare il cielo.
Per quanto feroce fosse il nemico, allora
all'origine di quella guerra era un gruppo solo.
Ma ora sulla terra, dove tutt'intorno risuona il mare,
devo distruggere la razza umana. Sui fiumi infernali,
che scorrono sotterra nei boschi dello Stige, lo giuro:
tutto è stato tentato, ma questa piaga incurabile
dev'essere recisa a spada, perché non guasti la parte sana.
Abbiamo semidei, divinità campestri, Ninfe,
Fauni, Satiri e Silvani dei monti: visto
che ancora degni non ci sembrano degli onori del cielo,
concediamogli almeno di abitare la terra a loro assegnata.
Ma voi, numi, credete che possano vivere sicuri,
dopo le insidie che quel sanguinario Licàone ha tramato
contro di me, che voi e il fulmine tengo in potere?».


xx
Clìmene levò al cielo
entrambe le braccia e fissando la luce del Sole:
«Per questo fulgore splendido di raggi abbaglianti,» disse,
«che ci vede e ci ascolta, io ti giuro, figliolo,
che tu sei nato da questo Sole che contempli e che regola
la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai più mi consenta
di guardarlo e sia questa luce l'ultima per i miei occhi!
Del resto non ti sarà fatica trovare la casa paterna:
la terra in cui risiede confina con la nostra, là dove sorge.
Se questo hai in animo, va' e chiedi a lui stesso».

xx
A queste domande Achemènide, non più conciato da selvaggio,
ma vestito ammodo, senza più stracci addosso uniti
con le spine, risponde: «Che io torni a vedere Polifemo
e quel suo ceffo grondante di sangue umano,
se questa nave non mi è più cara della mia casa e di Itaca,
se non venero Enea più di mio padre. Per quanto possa donargli,
mai potrei dimostrargli appieno la mia gratitudine.
Se ora parlo e respiro, se contemplo il cielo e la luce del sole,
come potrei essere ingrato e smemorato?
Grazie a lui, quest'anima mia non è finita in bocca
al Ciclope, e se anche ora lasciassi la luce della vita,
sarò sepolto in una tomba e non certo in quel ventre.
Che cosa non provai (ma il terrore m'aveva tolto ogni coscienza
dal cuore), quando vi vidi far vela verso il largo
abbandonandomi! Avrei voluto gridare, ma temetti
di svelarmi al nemico. Anche le grida di Ulisse per poco
non vi fecero naufragare. Io vedevo tutto, quando il Ciclope,
divelta dal monte una roccia immane, la scagliò in mezzo al mare;
vedevo tutto, quando col suo braccio gigantesco e con la forza
di una balestra continuò a lanciare macigni mostruosi
e, dimenticandomi che non ero più a bordo,
temetti che i flutti o i colpi di vento sommergessero la nave.
Quando poi la fuga vi sottrasse a morte precoce,
lui si mise a vagare gemendo per tutto l'Etna,


e tastava con le mani gli alberi, cozzava contro le rupi,
cieco com'era, e tendendo verso il mare le braccia
tutte lorde di sangue, malediceva la razza degli Achei,
urlando: "Oh se la fortuna mi riportasse qui Ulisse
o qualcuno dei suoi compagni, per sfogare la mia rabbia,
per mangiarne le viscere, per dilaniarli

Qui viveva in volontario esilio, per odio verso la tirannide,
un uomo nativo di Samo, ma che era fuggito da quest'isola
e dai suoi despoti. Costui si alzò con la mente sino agli dei,

xx
pur così remoti negli spazi celesti, e ciò che la natura
nega alla vista umana, lo comprese con l'occhio dell'intelletto.
E dopo aver sviscerato ogni cosa col pensiero e attento studio,
insegnava alla gente, e a schiere di discepoli, che silenziosi
pendevano dalle sue labbra, spiegava i princìpi
dell'universo, il senso delle cose e l'essenza della natura,
di dio, come si forma la neve, qual è l'origine dei fulmini,
se è Giove o il vento a provocare i tuoni squarciando le nubi,
che cosa scuote la terra, per quale legge vagano le stelle,
e ogni altro mistero. Per primo biasimò che s'imbandissero
animali sulle mense; per primo, ma rimase inascoltato,
schiuse la sua bocca a questo discorso pieno di saggezza:
«Evitate, mortali, di contaminare il corpo con vivande
nefande. Ci sono i cereali, i frutti che piegano
col loro peso i rami e i turgidi grappoli d'uva sulle viti.
Ci sono erbe saporite ed altre che si possono rendere
più gradevoli e tènere con la cottura. E poi non vi si nega
il latte o il miele che conserva il profumo del timo.
La terra vi fornisce a profusione ogni ben di dio per nutrirvi
e vi offre banchetti senza bisogno d'uccisioni e sangue.
Con la carne placano la fame gli animali e neppure tutti:
cavalli, greggi e armenti vivono d'erba.
Solo quelli d'indole feroce e selvatica,
le tigri d'Armenia, i collerici leoni
e i lupi, gli orsi gustano cibi lordi di sangue.
Ahimè, che delitto infame è ficcare visceri nei visceri,
impinguare un corpo ingordo rimpinzandolo con un altro corpo,
mantenersi in vita con la morte di un altro essere vivente !

xx
Solo uccidendo un altro essere potrai forse placare
il languore del tuo ventre vorace e sregolato?
Eppure quell'antica età, che abbiamo chiamata dell'oro,
era felice dei frutti degli alberi e delle erbe che produce
la terra, e non contaminava la bocca col sangue.
Gli uccelli allora battevano le ali tranquilli nell'aria,
senza timore la lepre vagava in mezzo ai campi
e il pesce, per sua ingenuità, non si ritrovava appeso all'amo:
il mondo, senza insidie, senza alcun inganno da temere,
era pervaso di pace. Ma poi un individuo sciagurato,
chiunque sia stato, invidioso del vitto dei leoni,
cominciò a inghiottire nell'avido ventre cibi di carne
e aprì la strada al crimine. All'inizio, credo, il ferro
si macchiò e s'intiepidì del sangue d'animali feroci;
doveva bastare: uccidere bestie che cercavano
di sbranarci non è, lo riconosco, un'empietà.
Ma se era giusto ucciderle, non dovevamo poi nutrircene.
Da lì lo scempio si spinse ben oltre: la vittima che per prima
meritò di morire pare fosse il maiale, perché col grugno
sconvolgeva i seminati annullando la speranza di un'annata;
poi, perché brucava le viti, fu immolato sull'ara di Bacco
per punizione il capro: a entrambi nocque il loro fallo.
Ma voi che male fate, pecore, placide bestie nate
per servire l'uomo, che nèttare portate nelle gonfie poppe,
che donate la vostra lana per le nostre morbide


vesti, che più utili ci siete vive che morte?
Che male ci ha fatto il bue, animale incapace di frode e inganni,
innocuo, semplice, nato solo per lavorare?
Un bell'ingrato, indegno persino del dono delle messi,
chi ha il coraggio d'uccidere il suo aiutante appena liberato
dal peso del curvo aratro, chi tronca con la scure
quel collo corroso dalla fatica, grazie al quale tante volte
ha rianimato il duro suolo e immagazzinato raccolti.
E non bastò che si accettasse un tale scempio: nel misfatto
si coinvolsero persino i numi, con l'idea che gli esseri
celesti godessero per la morte del laborioso giovenco.
La vittima senza macchia e bellissima d'aspetto
(guai essere troppo belli!), ornata tutta di bende e d'oro,
e posta di fronte all'altare, ascolta ignara le preghiere,
si vede collocare in fronte, fra le corna, il farro
che lei stessa ha fatto crescere, e colpita tinge di sangue
la lama, che forse ha intravisto in uno specchio d'acqua.
E subito vengono esaminati i visceri, estratti dal petto
ancora palpitante, per scrutarvi le intenzioni degli dei.
E voi (tanta è nell'uomo la bramosia di cibi vietati)
osate cibarvene, genia di mortali? No, non fatelo,
vi supplico, ascoltate attentamente i miei ammonimenti,
e quando al vostro palato offrite membra di buoi sgozzati,
sappiate e abbiate coscienza che state mangiando i vostri coloni.
E poiché è un dio a muovere le mie labbra, questo dio che muove
le mie labbra io lo seguirò devotamente, e aprirò la mia Delfi
e il cielo stesso, svelerò i responsi della sapienza divina.
Grandi cose canterò, cose mai indagate dall'intelletto


degli avi e rimaste nell'ombra. Giusto è spaziare fra gli astri
sublimi, giusto sollevarsi da terra, da questi luoghi inerti,
e portati dalle nubi, posarsi sul dorso forte di Atlante,
guardando di lassù gli uomini che in lontananza, senza ragione,
vagano inquieti, intimoriti dalla morte,
e cercare di esortarli, spiegando le regole del destino.
O stirpe sbigottita dal terrore di una morte gelida,
perché temete lo Stige, le tenebre, nomi privi di senso,
nutrimento di poeti, pericoli di un mondo immaginario?
I corpi, dissolti dalle fiamme del rogo o dai guasti del tempo,
non sono più in grado di soffrire, questo è certo.
Le anime invece non muoiono e sempre, lasciata l'antica sede
e accolte in un nuovo corpo, vi si insediano e continuano a vivere.
Io stesso, ricordo, al tempo della guerra di Troia
ero il figlio di Panto, l'Euforbo che un giorno fu trafitto
in pieno petto dall'asta violenta del minore degli Atridi:
nel tempio di Giunone ad Argo, dove regna Abante, tempo fa
ho riconosciuto lo scudo che allora armava il mio braccio.
Tutto si evolve, nulla si distrugge. Lo spirito vaga
dall'uno all'altro e viceversa, impossessandosi del corpo
che capita, e dagli animali passa in corpi umani,
da noi negli animali, senza mai deperire nel tempo.
Come la cera duttile si plasma in nuovi aspetti,
non rimanendo qual era e senza conservare la stessa forma,
ma sempre cera è, così, vi dico, l'anima
è sempre la stessa, ma trasmigra in varie figure.
Dunque, perché la pietà non sia vinta dall'ingordigia del ventre,
vi ammonisco, evitate d'esiliare con strage nefanda l'anima


di chi può esservi parente, e che di sangue si alimenti il sangue.
E poiché ormai mi sono inoltrato su questo vasto mare e al vento
ho spiegato le vele: in tutto il mondo non v'è nulla che persista.

Tutto scorre, ogni apparizione ha forma effimera.
Lo stesso tempo fugge con moto incessante,
non altrimenti del fiume: come il fiume infatti neppure l'ora
può fermarsi nella fuga, ma come dall'onda è sospinta l'onda
e quella che giunge è incalzata e incalza l'onda precedente,
così svanisce e nello stesso istante ricompare il tempo,
rinnovandosi di continuo: ciò che è stato si dissolve,
ciò che non esisteva avviene, e ogni momento si ricrea.
Tu vedi come al termine le notti tendano verso la luce
e come lo splendore del sole succeda al buio della notte.
Anche il colore del cielo non è il medesimo, quando ogni cosa
giace stanca nel sonno e quando sorge splendente Lucifero
sul suo bianco destriero; ed altro è ancora quando, all'alba,
l'Aurora tinge il mondo prima d'affidarlo al Sole.
E anche il disco di questo dio, quando al mattino sorge
rosseggia e rosseggia quando tramonta all'orizzonte;
ma al suo culmine è candido, perché lì più pura è la qualità
dell'aria e lontano può sottrarsi alle esalazioni della terra.
Né mai uguale a sé stessa può essere di notte
la luna: sempre più piccola è oggi di domani
se è in fase crescente, più grande se è in quella calante.
E poi non vedi che l'anno si snoda in quattro stagioni diverse,
come se cercasse d'imitare la nostra vita?
Tenero, come un bambino che succhi ancora il latte,
è l'anno a primavera: allora l'erba fresca e ancora elastica

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